Paolo Beffa – Lorenzo Piccinini
In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita in Contropiano anno 29 n° 1 – gennaio 2020 “Lo Stallo degli Imperialismi. Dazi monete e competizione globale“. La necessità del capitale europeo (a guida teutonica) di acquisire una scala adeguata allo scontro in atto è per esempio la ragione fondante della costruzione dell’Unione Europea (nonché la ragione dell’opposizione statunitense allo stesso), ed è per questo che, nonostante le laceranti contraddizioni che lo attraversano, il progetto di integrazione europeo è finora uscito più forte da ogni crisi che ha attraversato.
Se quindi il sogno della “fine della storia” teorizzato con il disgregarsi del blocco sovietico si sta infrangendo contro le contraddizioni interne del modo di produzione capitalista, c’è un altro sogno da cui qualcuno sta avendo un brusco risveglio: quello del Nuovo Secolo Americano.
Se infatti è indubbiamente vero che l’imperialismo americano mantiene una posizione dominante in una buona parte delle dimensioni che vanno a determinare gli equilibri globali (come la potenza militare), è altrettanto innegabile che la loro leadership in una serie di settori fondamentali (petrolio, tecnologia, spazio, moneta) stia venendo progressivamente incrinata. Per una disamina più approfondita delle caratteristiche della crisi dell’Impero Americano vedi “La crisi dell’Impero nord-americano”.
Potendo quindi abbandonare le teorizzazioni di un mondo unipolare a guida statunitense, all’interno del mondo multipolare che va a delinearsi c’è sicuramente un soggetto con una posizione speciale: la Cina.
La Repubblica Popolare Cinese, dopo essere stata per anni complementare all’imperialismo statunitense, a cui ha fornito un mercato per il capitale in eccesso e uno strategico accesso a merci a basso costo, si è trovata negli ultimi anni (anche a causa dell’evoluzione del tessuto produttivo cinese) sempre più spesso nel ruolo di competitor. Le guerre monetarie e quella commerciale avviata dall’amministrazione Obama e alimentata dall’amministrazione Trump sono una declinazione di questo conflitto, che intorno alla gestione della crisi innestata dal COVID-19 si sta esasperando sempre di più.
2. Storia della proiezione internazionale della Cina
È necessario fare un breve cenno alla storia della Cina. Rispetto alla vulgata mainstream secondo cui le riforme economiche di apertura di Deng Xiaoping hanno rappresentato uno stravolgimento delle politiche estere cinesi, alcuni autori sostengono che il loro peso come spartiacque strategico sia da riconsiderare, in quanto anche durante nell’era di Mao uno degli obiettivi strategici principali era il completamento della rivoluzione anti coloniale e l’emersione come paese indipendente e sovrano (ad esempio, all’interno del nostro ciclo di traduzioni sulla Cina, vedi “L’enigma della crescita cinese” e soprattutto “Samir Amin: Cina 2013” ). All’interno di questo processo la Cina ha assunto una posizione divergente rispetto a quella dell’URSS: nel movimento comunista internazionale ha promosso il policentrismo; a livello inter statale ha promosso la collaborazione tra i paesi non allineati, fuori dai blocchi della NATO e del Patto di Varsavia; all’interno del non allineamento ha promosso i “principi di coesistenza pacifica”, inizialmente con l’India (con cui pure ci saranno scontri militari, l’ultimo a giugno 2020) e poi con gli altri paesi partecipanti alla Conferenza di Bandung. Questo l’ha portata ad assumere posizioni anche molto distanti dal resto dei paesi socialisti, portandola per esempio ad essere l’unico paese socialista a riconoscere il governo di Pinochet in nome della “non interferenza” – e questo accadeva nel 1973, mentre in Cina era ancora in corso la Rivoluzione Culturale.
La Cina ha attraversato due momenti di isolamento internazionale, il primo durante gli anni radicali della Rivoluzione Culturale, in cui volontariamente troncò la quasi totalità degli scambi internazionali, salvo poi uscirne con la mossa del cavallo dell’apertura agli USA. Il secondo dopo la repressione del movimento di Piazza Tiananmen nel 1989.
Dopo l’89 ha portato avanti la politica “nascondere le ambizioni e dissimulare gli artigli” formulata da Deng Xiaoping, il cui obiettivo era quello di riguadagnare legittimità nei rapporti internazionali. Questa policy è stata mantenuta almeno fino all’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Dagli anni successivi è cominciata la preoccupazione in occidente per l’ascesa internazionale della Cina, chiaramente alimentata dalle conseguenze della crisi del 2008-2009.
3. La Cina nel ventunesimo secolo, come esportatrice di capitali
La Cina è stata 1) un paese sostanzialmente chiuso agli scambi commerciali 2) poi un paese attrattore di capitali esteri (anche se inizialmente largamente nella forma di capitali cinesi di Hong Kong, Arrighi 2007) di materie prime e componentistica, ed esportatore di prodotti finiti 3) ora è ancora in parte importatrice di capitali, materie prime e componentistica, ma anche un paese con rilevanti investimenti esteri. Nel decennio 2000-2010 ha fatto scalpore in occidente il protagonismo cinese in Africa con la creazione del Forum on China-Africa Cooperation (sulla portata e gli effetti di quel protagonismo, si veda l’articolo Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa alla fine di questo articolo).
Negli ultimi anni tiene invece banco la Belt and Road Initiative, l’iniziativa-marchio del presidente Xi Jinping per la costruzione di una serie di infrastrutture terrestri e marittime che colleghino la Cina all’Europa (e alle risorse energetiche africane e del Golfo) transitando per gli oceani pacifico e indiano e per l’Asia centrale. Lungo queste “nuove vie dalla seta” si sviluppano interventi di vario tipo, dall’esternalizzazione di produzione labour-intensive che in Cina non sono più favorite dai piani quinquennali (sia per l’esaurimento dei surplus di lavoro, sia per questioni di inquinamento, sia per la mutazione della produzione verso un anello superiore della catena del valore) alla creazione di poli di innovazione tecnologica. Queste “nuove vie della seta” vengono costellate di zone economiche speciali. L’effetto di questo mastodontico progetto sull’opinione pubblica mondiale e sui decision-makers occidentali è grande, e questo dà la misura di quanto sia cambiato dai tempi di Deng e del “nascondere e dissimulare”. Va però sottolineato, come nota anche Sam Moyo, che mentre i progetti cinesi sono molto appariscenti, spesso altri attori “insospettabili” sono molto più presenti. In Africa la sola Corea del Sud porta più investimenti esteri della Cina. Nei paesi dell’ASEAN il Giappone investe molto di più in progetti infrastrutturali di quanto faccia la Cina con la Belt and Road (https://www.scmp.com/news/asia/southeast-asia/article/3015732/japan-still-leads-southeast-asia-infrastructure-race-even).
Chiaramente una misura puramente quantitativa degli investimenti non può risolvere il dibattito che, all’interno del mondo marxista, si è sviluppato riguardo a questa crescita significativa di investimenti esteri: ovvero, possiamo parlare di un’espansione imperialista della Cina?
Secondo l’economista indiano Vijay Prashad i progetti infrastrutturali della Cina nei paesi africani servono a compensare in parte l’estrazione di risorse primarie a prezzi stracciati (prezzi fissati, secondo Prashad, dalle multinazionali occidentali che continuano a dominare il mercato) e, soprattutto, bisogna andare a distinguere il comportamento del capitale cinese privato dalla cooperazione statale e dagli investimenti guidati dalla pianificazione statale (per un approfondimento vedere l’intervista data al Qiao Collective che abbiamo tradotto qui: “Stiamo cercando di costruire l’umanità”.
Se Prashad ha sicuramente ragione nell’invocare queste distinzioni, è un po’ più difficile praticarle nell’analisi. Aldilà della notte oscura dei settori più anti cinesi per cui non sarebbero distinguibili privati e statali in quanto entrambi direttamente controllati dal PCC, è innegabile che ci sia comunque un grado di indirizzo dello stato cinese e che in alcuni casi siano in campo privati che sono stati elevati al grado di campioni industriali nazionali sotto forte controllo statale. Tutta l’attuale vicenda attorno alla Huawei e le infrastrutture del 5G ne è un ottimo esempio.
4. BRICS
La proiezione della Cina nelle relazioni internazionali più conosciuta è sicuramente quella del gruppo BRICS insieme a Brasile, Russia, India e Sud Africa. Sulla reazione di questo gruppo di paesi alla pandemia mondiale abbiamo già scritto: “COVID-19 e governance globale: il caso dei “Coronabond” cinesi e la Banca dei BRICS”.
Ovviamente le letture sul ruolo internazionale dei BRICS sono altrettanto varie quanto quelle sulla Cina in particolare. Ai due estremi ci sono le interpretazioni di chi li ha ritenuti un campo antimperialista definito, come se fossero il campo socialista o il campo dei non allineati, e di chi li ha ritenuti un polo imperialista a sé stante. In mezzo ci sono tutte le varie sfumature di sub imperialismo o di paesi che più o meno sistematicamente occasionalmente riescono a esercitare un’opposizione allo strapotere statunitense sul globo1.
Quello che è sicuro è che i BRICS come li abbiamo conosciuti, nonostante alcuni exploit come quello appunto relativo alla gestione del coronavirus, non esistono più. Continuano gli incontri tra i leader dei 5 paesi, il prossimo si sarebbe dovuto tenere in Russia a luglio ed è stato rimandato a data da definirsi “per via della pandemia”, ma il comune posizionamento anti-americano non c’è più. Il Brasile, prima con Temer, poi con Bolsonaro si è decisamente spostato sotto l’ombrello americano. In campagna elettorale Bolsonaro ha raccolto il sostegno dell’agrobusiness e del settore minerario giurando di proteggere le industrie nazionali dallo shopping cinese.
Ma la frattura principale è ovviamente quella tra India e Cina. Durante il primo mandato di Nerendra Modi (capo del partito BJP, della destra nazionalista induista) aveva comunque mantenuto un minimo di distanziamento dagli americani, mentre nel secondo mandato ha abbandonato ogni remora. L’India ora fa parte del Quadrilater Dialogue insieme agli USA e ai vassalli Giappone e Australia, sta aumentando sistematicamente la cooperazione militare con i paesi dell’area ostili alla Cina, e torna a premere sui confini rimasti congelati dopo la guerra sino indiana del ’67. Sullo scontro armato degli inizi di giugno tra Cina e India, in cui ci sono stati venti morti da parte indiana e un numero imprecisato da parte cinese, le due parti si danno la colpa a vicenda di aver violato gli accordi di de-escalation. L’unica cosa su cui entrambi sono d’accordo è che non ci sarebbe stato uso di armi da fuoco e il numero alto di vittime sarebbe spiegato dalle condizioni estreme del combattimento: in una valle col fondo a 4000 metri sul livello del mare, con dirupi alti centinaia di metri e temperature ben sotto lo zero.
In ogni caso, è innegabile, e riportato anche da fonti anti cinesi, che è stata l’India a scongelare la crisi, andando a costruire infrastrutture permanenti dentro la Actual Line of Control, che non è una linea ma una fascia piuttosto vasta rivendicata da entrambi i paesi, andando contro l’unico accordo che i due paesi avevano concordato in questi decenni (https://indianexpress.com/article/india/india-builds-road-north-of-ladakh-lake-china-warns-of-necessary-counter-measures-6421271/). È alla luce del sole anche il fatto che Modi ha intensificato le operazioni ai confini contesi (non solo con la Cina, ma anche col Pakistan e il Nepal) proprio nel momento in cui la seconda ondata di epidemia stava esplodendo in stati importantissimi come il Maharastra, il Tamil Nadu, il Bengala dell’Ovest (ex bastione dei due Partiti Comunisti indiani, di cui uno molto filo cinese) e il Gujarat (la base di potere di Modi).
Mentre una qualche de-escalation militare è stata raggiunta, l’India ha alzato il tiro economicamente. Sono state bannate decine di app cinesi tra cui i social TikTok e Weibo/Wechat (indispensabile per chiunque abbia contatto commerciali con la Cina) e l’India è stato uno dei primi paesi a tagliare fuori Huawei dai progetti sul 5g, dando anche indicazioni a tutta l’amministrazione statale di tagliare qualunque legame con Huawei.
5. La recente velocizzazione dello scontro USA-Cina
La pandemia sembra avere accelerato le dinamiche dello scontro internazionale tra gli Stati Uniti e Cina
Da quando abbiamo iniziato il lavoro su questo dossier Cina gli Stati Uniti di Trump hanno accusato la Cina di aver più o meno volontariamente causato la pandemia, hanno di fatto espulso centinaia di miglia di studenti cinesi e stanno mettendo alla porta centinaia di accademici cinesi o di origine cinese anche a costo di fare un danno rilevante alla ricerca. Sono state elevate nuove barriere tariffarie e, in riposta alla legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, gli USA hanno cominciato a restringere il riconoscimento dello “status commerciale speciale” della città. È stata intensificata la campagna politica sul Xinjiang. È stato chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston con l’accusa di spionaggio, in risposta è stato chiuso il consolato americano a Chengdu. La Cina ha imposto sanzioni al gigante militar-industriale della Lockheed Martin contro la vendita di aerei da guerra a Taiwan e minaccia di tagliare il commercio di terre rare, nel frattempo gli Stati Uniti continuano a manovrare la Settima Flotta nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. Il ministro degli esteri Pompeo ha addirittura tenuto un discorso rivolto esplicitamente al cambio di regime a Beijing.
Non possiamo naturalmente prevedere come queste tensioni si svilupperanno, ma possiamo cominciare a fare delle ipotesi, consapevoli che l’evoluzione delle dinamiche sarà fortemente influenzato dallo sviluppo della crisi del Modo di Produzione Capitalista che stiamo attraversando.
Un’ipotesi da tenere in considerazione è che l’escalation del conflitto da parte statunitense non sia semplicemente un tentativo di riguadagnare consenso interni da parte di Trump ma un tentativo di definire un “nuovo normale” nei rapporti USA-Cina su cui anche Biden non potrebbe fare retromarcia. Bisogna poi chiedersi anche se nel caso di una vittoria dei Democrats, questi sarebbero intenzionati a fare retromarcia. La bozza di manifesto programmatico di Biden resa pubblico a fine Luglio si differenzia da Trump nella contrarietà a nuove barriere tariffarie, ma conferma la costruzione di un’alleanza regionale anti cinese e la politica di sanzioni in risposta alle mosse politiche di Beijing.
Se questo livello di scontro diventasse il “nuovo normale” delle relazioni, significherebbe la fine della ventennale strategia statunitense di engagement, cioè del tentativo di reclutare la Cina come “numero 2” principalmente con le buone maniere e occasionalmente con le cattive. In questo “nuovo normale” le cattive maniere sarebbero l’approccio standard. Una nuova guerra fredda, ma con un’interdipendenza economica che non può essere superata né in due anni né in un decennio. Per quanto gli USA possano favorire il rientro di produzioni nei propri confini e nei confini di paesi più malleabili, per quanti i cinesi possano rimodulare la propria programmazione economica verso i consumi interni, il disaccoppiamento tra i due poli resterà un processo in tendenza, a meno di un evento traumatico.
Una delle opzioni possibili è la guerra calda. Non lo scontro aperto tra le due potenze con l’uso delle armi nucleari, ma una guerra per procura combattuta con mezzi “tradizionali” in uno o più dei “punti caldi” che circondano la Cina: la penisola coreana, le isole contestate nel Mar Cinese, lo stretto di Malacca da cui passa più dell’80% delle risorse energetiche dirette in Cina, Taiwan, i confini terrestri con l’India. Da decenni gli ambienti statunitensi coltivano il sogno di spezzettare la Cina continentale e farne tante Hong Kong o Singapore utilizzabili come snodi produttivi e finanziari malleabili. L’idea di poter realmente rendere delle città-stato Shanghai, le provincie del Zhejiang e del Fujian, o la provincia del Guangdong, è aldilà della fattibilità. Ma nelle accademie militari e nei circoli politici dei “falchi” viene detto esplicitamente che un limitato scontro militare potrebbe ricondurre il Partito Comunista Cinese a più miti consigli, lasciando margini più ampi di liberalizzazione nelle province interessanti per il capitale transnazionale.
6. La proiezione internazionale della Cina vista dall’occidente
Da anni a questa parte si è radicata la preoccupazione, all’interno dell’élite americana e, in buona parte, europea che la Cina si rivelasse una “potenza revisionista” del sistema di relazioni internazionali, vale a dire che oltre a crescere economicamente acquistasse anche un peso politico tale da scardinare il sistema di dominio globale vigente, caratterizzato dall’alleanza-competizione fra i paesi della cosiddetta triade imperialista USA-UE-Giappone.
Nella sgangherata sinistra occidentale si è invece andando producendo la discussione sulla natura imperialista o antimperialista dell’ascesa cinese.
L’idea che la Cina stia costruendo un polo imperialista in tutto e per tutto è condivisa dalla gran parte delle sinistre radicali europee, dai discendenti dell’eurocomunismo e dai vari “socialdemocratici di sinistra” e “rosso verdi”. All’interno di questo campo ci sono alcune significative eccezioni come la Linke tedesca e le posizioni (spesso roboanti e oscillanti, come per tutto il resto) di Melenchon. Questa ostilità è condivisa spesso da ambienti politici che, in funzione “anti revisionista”, contestano l’adozione del Modo di Produzione di Capitalista e della conseguente supposta proiezione imperialista all’estero, talvolta individuando i BRICS come blocco imperialista tout-court. Questa posizione è stata assunta dal KKE greco e da molte organizzazioni a esso legate, come il PC in Italia.
Al di fuori dei partiti, nei movimenti basisti si può trovare un’ostilità ancora maggiore all’ascesa cinese: assumendo in toto il paradigma della restaurazione del capitalismo, del colonialismo interno sul Tibet (e più recentemente sullo Xinjiang) e dell’integrazione cinese all’interno del sistema imperialista internazionale (sia nella versione di scontro tra imperialismi, sia nella versione di ultra-imperialismo alla Kautsky riscaldata da Negri), questi movimenti basisti solitamente non si pongono nessuna problematicità sulla natura generale dell’ascesa cinese, soffermandosi invece spesso sull’opposizione a specifici progetti internazionali cinesi. Considerato che i progetti internazionali della Cina sono spesso e volentieri grandi progetti infrastrutturali, a volte questa ostilità risponde a problematicità reali.
Esista poi una posizione contrapposta che difende senza remore la natura socialista della Cina – e una conseguente “naturale” funzione anti-imperialista.
Una “terza posizione” è quella che sostanzialmente dice che non importa se lo sviluppo sia imperialista o antimperialista, l’importante è che crei un contrappeso allo stra-potere americano e sostenga le esperienze di paesi (a seconda delle inclinazioni) terzi, socialisti, non allineati, anti imperialisti o anche semplicemente temporaneamente disallineati rispetto agli USA.
Riguardo alle valutazioni di un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese che ha stimolato tanto dibattito nel primo decennio del ventunesimo secolo, ovvero le relazioni Cina-paesi africani, rimandiamo alla lettura dell’articolo Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
7. Si può parlare di imperialismo cinese?
Nel chiederci se possiamo parlare di imperialismo cinese o meno, un errore in cui non bisogna cadere è avvitarsi in una discussione tutta dottrinaria sulla natura dell’imperialismo, in cui la definizione di imperialismo smetta di essere uno strumento per orientare la lotta e diventi un fine in sé, con in più il pericolo di piegare la definizione ai risultati desiderati (esempio: dico che è imperialismo solo da un certo numero di basi militari all’estero. Controesempio: dico che al primo militare all’estero è imperialismo). Sarebbe poi sbagliato limitare la definizione di imperialismo a solo alcune delle sue caratteristiche: l’imperialismo non è solo esportazione di capitale, l’imperialismo non è solo presenza militare all’estero. Chiarire ciò ci permette di evitare alcune conclusioni assurde per cui uno stato non-imperialista dovrebbe essere sostanzialmente autarchico o, al limite, importare capitale e basta (della serie: non dovremmo fare campagna contro l’embargo a Cuba) e non dovrebbe avere nessuna proiezione estera di nessun tipo.
Ma l’errore probabilmente più grave sarebbe quello di esprimere un giudizio in maniere anti-dialettica, basandosi su una fotografia della situazione anziché cercando di cogliere le tendenze del processo in corso.
Per molti versi la discussione sulla “natura imperialista” o meno della Cina discussione ricalca la discussione “Cina socialista o capitalista” che Samir Amin (nel suo articolo China 2013) rifiuta in quanto insensata nella sua contrapposizione di assoluti, ma con qualche caveat in più. La questione centrale è data dal fatto che la Cina ha da tempo adottato il modo di produzione capitalista, al fine di costruire un sistema industriale moderno integrato e sovrano e di controllare l’integrazione della Cina nel sistema-mondo capitalista. Questo processo sta venendo controllato politicamente dal Partito Comunista Cinese, attraverso un livello di pianificazione e regolazione significativo. Si tratta di un passaggio che Samir Amin reputa necessario, ma che allo stesso tempo genera una grande quantità di contraddizioni interne e di spinte verso un ritorno definitivo all’ovile capitalista. Ma in ogni caso l’adozione del modo di produzione capitalista comporta rimanere invischiati nelle crisi e nelle contraddizioni che questo livello di sviluppo mondiale comporta.
È importante infatti sottolineare che l’imperialismo non è una serie di politiche adottate da un paese, ma la fase di sviluppo del modo di produzione capitalista nella sua totalità. Quando si parla quindi di “imperialismi” si intendono semplicemente diverse articolazioni di questa realtà generale, che tra loro hanno diversi rapporti conflittuali. Essendo la competizione all’interno dell’imperialismo una diretta conseguenza della tendenza ad una sempre più difficile valorizzazione del capitale, è naturale che la Cina venga coinvolta in questo processo. Come è anche naturale che i possibili scenari che si aprono riguardo all’evoluzione della fase storica in generale e della linea di sviluppo della Cina in particolare siano strettamente legati alla condizione di crisi sistemica che stiamo attraversando.
Non è possibile infatti escludere a prescindere uno scenario in cui la Cina sostituisce (con tempistiche e modalità che possono essere le più varie) gli USA come imperialismo egemonico a livello mondiale– magari con caratteristiche diverse e specifiche – riuscendo a sfogare verso l’esterno le proprie contraddizioni interne. Questo tuttavia presuppone un’uscita dalla crisi del modo di produzione capitalista, e non esclude la possibilità di uno scontro militare aperto (le tensioni militari nell’area del pacifico si stanno intensificando velocemente negli ultimi anni). Casomai invece una uscita da questa crisi, che in una forma o nell’altra si trascina dagli anni ’70, non venga trovata gli scenari che si aprono potranno essere anche molto diversi, e vedrebbero una Cina (ma non solo la Cina) doversi confrontare direttamente con la scelta di mantenere o meno un sistema sociale e un Modo di Produzione che semplicemente non riesce più a soddisfare i bisogni della popolazione e che mette sempre più in pericolo l’umanità stessa.
CREDITS
Immagine in evidenza: Diesel locomotive CKD9C with freight train at border station Alashankou
Autore dell’immagine: Полномочное представительство Республики Татарстан в Республике Казахстан, 26 aprile 2017
Licenza: Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata