Sabato nel tardo pomeriggio le elezioni presidenziali statunitensi hanno avuto “formalmente” un vincitore che ha superato la soglia dei 270 “grandi elettori”, necessaria per aggiudicarsi la carica.
Il tortuoso processo elettorale, e il mancato riconoscimento della vittoria di Biden da parte di Trump, hanno aperto una crisi istituzionale dagli esiti incerti, che mostra l’alto livello di delegittimazione politica del sistema della rappresentanza statunitense.
Questa, in un ordine di grandezza minore, era già emersa nel 2016 con la sfida alle primarie democratiche di Bernie Sanders, e soprattutto con l’ascesa di Donald Trump in campo conservatore.
A queste elezioni hanno votato 20 milioni di iscritti alle liste elettorali in più del 2016, sostanzialmente il 65%. 75 milioni e 300 mila voti circa sono andati allo sfidante democratico Joe Biden e alla vice Kamala Harris, mentre circa 71 milioni e 48 mila sono andati al presidente uscente ed al candidato vice-presidente Mike Pence.
Uno scarto di poco più di 4 milioni di preferenze tra i due pretendenti alla Casa Bianca – entrambi ricevuto più voti di ogni altro candidato presidenziale nella storia degli Stati Uniti -, cioè poco più dei 3 milioni di voti ottenuti da Hillary Clinton contro lo stesso Trump alle elezioni del 2016.
Questa inedita partecipazione è frutto delle contraddizioni interne e strutturali che stanno da tempo maturando e che la pandemia ha amplificato, con un corpo sociale sempre più diviso e radicalizzato: dalla vulnerabilità sanitaria e sociale di porzioni significative di popolazione – soprattutto tra le “minoranze etniche” – alla questione razziale; dalla messa in discussione di garanzie civili che si credevano acquisite (in particolare per le donne) alla questione climatica, rivelatasi esplosiva con i recenti incendi in California.
In generale,, la carta geografica del voto è abbastanza netta, Biden vince nei centri con più di 2 milioni di abitanti anche negli Stati che sono storici bastioni elettorali repubblicani. Trump vince nei piccoli centri e nelle campagne, oltre che nelle zone periferiche (suburbs) o “per-urbane” (exurbs), anche negli Stati in cui vincono i democratici.
Da un lato un centinaio di “metropoli” democratiche, concentrate prevalentemente ma non esclusivamente negli stati sulla Costa Atlantica e Pacifica, dall’altro l’America Profonda, danno la fotografia di una nazione spaccata che difficilmente Biden potrà ricomporre.
Questa polarizzazione politica sancita dalle elezioni, mentre trova in Trump una degna rappresentazione della radicalizzazione in corso nel campo conservatore, non si riflette allo stesso modo nel partito uscito vincitore.
L’establishment democratico ed il suo connaturato centrismo risulta incapace di dare uno sbocco alle rivendicazioni che parti importanti di popolazione hanno fin qui espresso, anche nelle motivazioni del voto, stando alle prime ricerche sul campo.
Tanto che la Ocasio-Cortez è arrivata a denunciare l’ostilità dei democrats verso i progressisti e il movimento Black Lives Matter.
La radicalizzazione “a sinistra” è avvenuta prima all’interno dei settori di lavoratori più esposti ai rischi sanitari, poi con le mobilitazioni per la giustizia razziale, che dopo la morte di George Floyd a fine maggio hanno coinvolto anche parti importanti di “euro-americani”, e poi nella contrapposizione anche fisica tra i supporter e detrattori di Trump.
Questa incapacità da parte dell’ex numero due di Obama di rappresentare la spinta popolare che pure lo ha fatto vincere, unita ai compromessi che Biden dovrà stabilire con i repubblicani per portare avanti la sua opera di governo, rischiano di aprire un conflitto all’interno dei democrats con la parte più progressista del partito – che, dopo avere perso la sfida nelle primarie, aveva comunque sostenuto Biden – oltre che con la base elettorale popolare, travolta da una crisi da cui non si intravede via d’uscita.
Anche Trump ha ampliato il suo consenso elettorale, e – a meno di sorprese “giudiziarie” – rimarrà al centro della scena politica probabilmente fino alle prossime elezioni presidenziali.
Continuerà ad essere il vero deus ex machina del partito repubblicano e utilizzerà – anche militarmente – la sua ampia base sociale composta da fasce non irrilevanti di subalterni. In ogni caso, “il trumpismo”, che ha sdoganato le pulsioni reazionarie più impresentabili, continuerà a scorrere nelle vene dell’Amerika”.
Ma le sue “forzature” sconvolgono anche il proprio campo, provocando le prime defezioni tra i ranghi repubblicani, non tutti disposti ad assecondare il presidente nella sua crociata contro le presunte frodi elettorali.
Questa fronda è preoccupata soprattutto del clima di instabilità permanente che rischia di aprirsi e che potrebbe nuocere ai propri referenti economici; e probabilmente è stata “ben consigliata” da parti del Deep State (Pentagono ed FBI, tra l’altro) che più volte sono entrati in rotta collisione con l’inquilino della Casa Bianca.
Non è detto che entrambi i corpi politici – democratici e repubblicani – sulla spinta dei propri conflitti interni, alimentati dalle contraddizioni sociali reali, non conoscano delle rotture significative fin qui scongiurate, nonostante l’affermazione di due outsider come Sanders da un lato e Trump dall’altro.
Biden avrà comunque le mani piuttosto legate, se riuscirà ad entrare in carica il 20 gennaio, al netto di ricorsi legali e colpi di mano del presidente uscente; e non soltanto per il già menzionato controllo repubblicano di fulcri importanti del potere statunitense (a partire dalla Corte Suprema).
Se per risolvere le contraddizioni interne non basterà il savoir-faire dei consolidati tecnocrati dell’era Obama, la situazione internazionale appare ancora più incerta. Sarà difficile reimporre un’egemonia yankee ormai in declino su differenti fronti; dal “cortile di casa” latino-americano, al Medio-Oriente, passando per la sostanziale inefficacia della politica di pressione sulla Cina, iniziata già con Barack Obama ed il suo “pivot to Asia”.
In politica estera, Biden ha annunciato di voler ricostruire la leadership nord-americana riapppacificandosi col consesso internazionale – rientrando negli accordi di Parigi sul clima, così come nell’Unesco e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità – potenziando il ruolo della NATO e re-impostando in generale una politica atlantista, cercando di ristabilire rapporti di forte cooperazione con la UE su differenti aspetti, e infine provando a rianimare l’accordo sul nucleare con l’Iran.
Ma tutte le priorità che entrano obbligatoriamente nell’agenda del futuro inquilino della Casa Bianca produrranno frizioni non secondarie all’interno dello scontro tra imperialismi, alimentato dalla crisi sistemica che il modo di produzione capitalista sta attraversando. E non basteranno degli slogan per risolvere questa competizione strutturale tra i macro-blocchi internazionali – la Cina in primis, ma anche la UE.
Questa competizione sempre più aspra non potrà non avere ricadute molto consistenti sulla sempre più incerta “rendita di posizione” statunitense e sulla sua capacità imperiale di sfogare le proprie contraddizioni verso l’esterno, come gli ultimi avvenimenti stanno dimostrando.
Che il nemico storico di ogni ipotesi di trasformazione in senso socialista della realtà si trovi ad un evidente impasse, nell’affrontare il combinato disposto di un fronte interno “indebolito” e di un fronte esterno sempre più ostico, è una ottima notizia per i comunisti e per le condizioni in cui agiscono, anche nel nostro Paese.
Un’arma anche ideologica in più per mostrare come il capitalismo nel suo più alto grado di sviluppo sia un gigante dai piedi d’argilla.